Prijedor si trova nel nord-ovest della Bosnia Erzegovina, oggi territorio della Republika Srpska. All’inizio degli anni ’90 contava circa 103 mila abitanti, di cui 50.000 bosniaci musulmani e 60.000 bosniaci croati.
Prijedor era il capoluogo di un distretto industriale e minerario estremamente importante nell’economia jugoslava e ciò rese la sua “conquista” da parte delle forze serbe strategica.
Nell’estate del 1991 la regione di Prijedor costituì la base logistica dell’armata federale jugoslava impegnata nella guerra in Croazia. Contemporaneamente vennero preparate in clandestinità le strutture del futuro governo serbo nella regione. A Prijedor fu creato un Comitato di crisi il cui scopo era quello di armare i serbi, distruggere le relazioni multietniche, organizzare il furto delle loro risorse attraverso il controllo delle banche, l’esproprio e le rapine.
Il 30 aprile 1992, le forze serbo-bosniache presero il controllo della città e assassinarono il sindaco di Prijedor. Fu un'azione pianificata e coordinata in anticipo con l’obiettivo finale di creare un comune serbo etnicamente puro. Venne intimato a tutti i non serbi di consegnare le armi e il 31 maggio fu imposto loro di esporre un drappo bianco fuori dalle finestre e di indossare una fascia bianca al braccio, per essere ben riconoscibili. Iniziarono poi i rastrellamenti, le deportazioni, gli eccidi di massa della popolazione non serba. Le prime vittime furono i poliziotti, poi i rappresentanti dell'élite industriale e commerciale a cui vennero sequestrati le proprietà e i beni mobili che vennero inviati in Serbia. Iniziò così la “pulizia etnica” della città che culminò con l’apertura, nei dintorni di Prijedor, di quattro campi di concentramento: la miniera di Omarska, la fabbrica di Keraterm, il villaggio di Trnopolje e il poligono militare di Manjaca, luoghi di violenze, uccisioni, stupri, torture quotidiane.
Il 4 maggio la Bosnia Erzegovina dichiarò ufficialmente l’aggressione jugoslava e chiese l’intervento internazionale. Con la fine del mese di maggio la campagna militare si fece sempre più cruenta e interi villaggi intorno a Prijedor furono rasi al suolo.
Il 30 giugno la Croce Rossa bosniaca inviò alla Croce Rossa internazionale un rapporto sull’esistenza di campi di sterminio nelle zone controllate dai serbi.
All’inizio di luglio la Croce Rossa internazionale riuscì a compiere un'ispezione parziale in nove campi di concentramento in cui erano detenuti, in condizioni disumane, migliaia di civili. La portavoce della Croce Rossa internazionale dichiarerà in seguito che tutti i governi erano al corrente dell’esistenza di questi campi di concentramento e di quello che avveniva nell’ex Jugoslavia.
Il 25 agosto a Londra fu convocata una Conferenza internazionale di pace per la Bosnia e fu imposto un cessate il fuoco alle truppe serbe sotto l’egida dell’Onu. Karadžić, presidente della autoproclamata Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina dal maggio del 1992, promise di consegnare l’artiglieria pesante e fermare l’assedio delle città bosniache, ma nulla di tutto ciò avvenne. Quattro mesi più tardi Mazowiecki, presidente della Commissione d’indagine sui crimini di guerra delle Nazioni Unite, segnalò che oltre 70.000 civili erano ancora prigionieri in 135 campi. In un successivo rapporto del 1994 la Commissione dichiarò che la distruzione sistematica della componente bosniaca in quell’area geografica doveva definirsi “genocidio”. Dal 1992 al 1995 a Prijedor 31.000 persone furono internate nei campi, 53.000 furono vittime di persecuzione e deportazione. Di queste, 3.173 vennero uccise; 102 erano bambini. Vicino ai campi di concentramento vennero rinvenute decine di fosse comuni, molte delle quali in miniere abbandonate, miniere che oggi vengono privatizzate tra le proteste delle associazioni dei familiari delle vittime. Nel 2013 a Tomasica, una località vicino a Prijedor, grazie alla confessione di un soldato serbo è stata scoperta una delle fosse comuni più grandi di tutta la Bosnia dove furono seppelliti 1274 persone uccise nell’estate del 1992.
Oggi a Prijedor vivono circa 600 bosniaci musulmani e 1400 bosniaci croati; nonostante molte famiglie croate e bosgnacche ( sono chiamati bosgnacchi i bosniaci musulmani) abbiano fatto ritorno a Prijedor, le profonde divisioni create dalla guerra non sono ancora state superate. A Prijedor e nei villaggi rurali vicini non ci sono quasi bambini e ci sono pochi uomini musulmani: sono rimaste le donne sopravvissute alla pulizia etnica del 1992 e sono sole, senza speranze per il loro futuro.
Le discriminazioni operate nei confronti della parte bosniaca musulmana della popolazione, e in particolare delle donne, sono ancora vigenti soprattutto nel mondo del lavoro.
" Lo sguardo di Jasna: dove prima c’era fierezza, ora c'è malinconia, dove non è riuscita la guerra a piegare le persone, c'è un lungo dopoguerra a minare ciò che rimane della voglia di resistere. Perché se il ritorno non poteva essere impedito, è il venir meno dello stato di diritto a metterti in ginocchio, nella discriminazione quotidiana verso il diritto al lavoro come nel riconoscimento delle professionalità, nell'istruzione che racconta una narrazione di parte come nel negare il diritto al ricordo di centodue bambini massacrati e fatti sparire negli anni della guerra. Oggi può capitare di incontrare per strada a Prijedor quelli che nel 1992 facevano parte del Comitato di crisi, non solo le figure non particolarmente in vista che pure in un modo o nell'altro parteciparono alla pulizia etnica, ma anche quei criminali che, scontata la condanna inflitta dal Tribunale Penale Internazionale, sono di nuovo liberi, spesso più arroganti di prima. Vedere quegli uomini che organizzarono i campi di concentramento di Omarska, Keraterm, Trnopolje, responsabili delle violenze e dell'uccisione dei propri cari, non può che farti sentire doppiamente sconfitta. Ecco che nello sguardo di Jasna non leggi solo la delusione e la tristezza della solitudine, ci trovi il segno di una sconfitta più profonda, come se alla fine di tutta questa fatica ti rendessi conto che a vincere sono stati loro. [Da La leonessa della Lijeva Obala di Michelle Nardelli ]
APPROFONDIMENTI
Italia-Bosnia: la mia fascia bianca di Edvard Cucek
Gli stupri di guerra di Gabriele Santoro
Luca Rastello, La guerra in casa, capitolo VI, Einaudi
Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, Feltrinelli
Wojciech Tochman, Come se mangiassi pietre, pp. 125-129