Consigli per essere un bravo immigrato

Elvira Mujcic è una giovane scrittrice bosniaca.  Ha vissuto a Srebrenica fino all’inizio della guerra, nel 1992. Risiede in Italia da più di vent’anni e lavora come scrittrice e traduttrice letteraria. Nel 2007 ha firmato Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica, un diario di viaggio che è un urlo contro l’orrore di un efferato genocidio della storia recente, consumatosi l’11 luglio 1995. Il romanzo E se Fuad avesse avuto la dinamite? (2009) è invece la storia di Zlatan, un ragazzo fuggito dalla guerra in Bosnia che, dopo anni trascorsi da esule in Italia, ormai trentenne torna a interrogarsi sulle contraddizioni e le incomprensioni della sua gente. L’esperienza dello sradicamento e del difficile dialogo tra culture e linguaggi caratterizza anche i libri successivi di Mujčić, in particolare: La lingua di Ana (2012), Dieci prugne ai fascisti (2016) e Consigli per essere un bravo immigrato (2019).

 

Per gentile concessione di Elvira Mujcic, da Consigli per essere un bravo immigrato, 2019, Elliot Edizioni

«In Italia uno può accendere il fuoco dove gli pare?» si era infor-
mato Mele, un amico di mio fratello conosciuto l’ultima volta che
ero stata in Bosnia.
«In che senso?» avevo chiesto stupita della virata che aveva pre-
so poiché soltanto un attimo prima stava argomentando in ma-
niera surreale la sua tesi sull’inesistenza di Dio.
«In questo senso: un uomo si può accendere il fuoco dove gli
pare e fare un agnello allo spiedo?».
«No, non si può».
«Ah, in un Paese così non vale la pena di vivere!».
Ma per quale ragione dobbiamo sempre buttarla sul folclore,
mi domandai infastidita, sentendomi a disagio, una sorta di mae-
strina austro-ungarica seduta sul divano orientale. Stavo andando a
incontrare Ismail quando mi venne in mente questo episodio, forse
a causa della nostra ultima chiacchierata e al proverbio africano
con il quale ci eravamo salutati: «Quando non sai dove stai andan-
do, ricordati da dove vieni». Ci vorrebbero delle indicazioni su co-
me essere un bravo immigrato quando si ritorna in patria, pensai, e
d’un tratto mi resi conto che la nostalgia che mi aveva accompagnata
per decenni era svanita, al suo posto era arrivata una rinnovata cu-
riosità per il presente di quel Paese che io amavo solo se collocato nel
passato, perché da quel tempo lontano non poteva arrivare a farmi
male; non era una curiosità spensierata e gioiosa, anzi spesso era per-
vasa da un fastidio diffuso e un terrore paralizzante. Si trattava di
uno di quei legami viscerali contro i quali non potevo far nulla, un
incessante rimbalzare tra la convinzione che lì fosse rimasto qual-
cosa che dovevo assolutamente trovare e la constatazione che ciò che
cercavo era fatto della stessa materia di cui è fatta la nebbia.

Scesi dal tram e vidi Ismail fermo sul ciglio della strada in pro-
cinto di attraversare. Anche lui mi notò, annuì con la testa, ac-
cennò un fugace sorriso e si fermò per aspettarmi. Grandi dimo-
strazioni di amicizia, considerai mentre mi avvicinavo. Ci salutam-
mo dandoci la mano come sempre e restando sospesi per qualche
secondo nell’impaccio di quel saluto formale e distante, senza però
varcare mai la soglia di un atteggiamento più caloroso. Durante le
nostre chiacchierate ci rivelavamo aspetti profondi dei nostri vis-
suti, eppure ci salutavamo come fossimo degli sconosciuti. Ci av-
viammo in silenzio verso il muretto del nostro rituale e ci sedem-
mo come fosse concordato che solo lì poteva avere inizio la nostra
conversazione. Gli raccontai l’aneddoto di Mele, del fuoco e del-
l’agnello allo spiedo, lui rise e rispose che all’inizio della sua vita in
Italia gli capitavano di continuo pensieri simili, col passare dei me-
si erano diventati meno frequenti. Era cambiato così tanto che al
Centro lo prendevano in giro dicendo che era diventato un africa-
no svizzero a causa della sua puntualità ed efficienza. Quando era
arrivato in Italia, la concezione occidentale del tempo non faceva
parte delle sue preoccupazioni, come quasi sempre per gli africa-
ni, non si pensa mai di perdere tempo, quest’idea semplicemente
non ha senso. Era anche per questo che quelli delle Commissioni
si spazientivano, volevano che loro raccontassero i viaggi con le
coordinate occidentali dello spazio e del tempo e di quanto spazio
veniva percorso in un certo tempo. Se era meno dello standard,
chiedevano: perché? Se era più dello standard, chiedevano: perché?
Rimanevano perplessi di fronte alle loro storie e non prende-
vano mai in considerazione la possibilità che qualcuno avesse altri
modi, altri criteri per raccontare. No, cercavano a tutti i costi di
dare un ordine preciso alle vite piene di accadimenti, di interru-
zioni, di riprese. Vite caotiche. Lui ci si era ammalato per tutto quel
caos che aveva dentro e allora si era detto che magari sarebbe sta-
to un bene sistemare con un ordine preciso la sua storia, seguire
un filo, una logica, come vedeva fare qui, prepararsi. Forse era
stato lì che aveva iniziato a pensare al tempo, a stabilire e tagliare
o ritagliare dei pezzi di tempo come se fosse un oggetto solido,
qualcosa che tieni tra le mani; ed era un pensiero davvero strano,
non l’aveva mai fatto, lui veniva da un luogo dove l’occupazione

principale consisteva nell’aspettare e nell’attesa camminare, muo-
versi insieme a tutto il resto della massa umana, come se si trattas-
se di un corpo unico, e forse era così. Però si era reso conto che
aspettare qui, nella situazione in cui si trovava, equivaleva a mori-
re nel Centro. Per questa ragione spronava anche i nuovi arrivati,
lo faceva con un intento didattico, insegnare loro qualcosa che lui
aveva imparato sulla sua pelle.
«Le indicazioni per essere un bravo immigrato tu le conoscevi
già da te!».
«Forse sì, speravo tu me ne dessi di migliori».
«E invece...».
«Tu dici quindi che bisogna accettare che non si può ottenere
di più?».
«Dipende, di più in cosa?».
«Nella libertà... la libertà di essere come si è».
«Ah, sì, ma quella è un’altra storia, qui parliamo di ottenere i
documenti».
«Secondo te solo di questo parliamo?».
«Non mi sono spiegata, intendevo che queste indicazioni val-
gono solo per i documenti, non per la tua vita... Insomma, è chia-
ro che noi parliamo di tanto di più...».
Ismail aveva rivolto lo sguardo verso un punto in mezzo ai suoi
piedi, si era di nuovo estraniato dal mondo e concentrato nel suo
dialogo interiore. Un’urgenza sconosciuta muoveva i muscoli del
suo viso e io mi chiedevo se mai me l’avrebbe raccontata o se in
qualche modo mi ero giocata la sua fiducia. Le frequenze della fi-
ducia tra noi si affievolivano e si rafforzavano con una facilità di-
sarmante, era un equilibrio sempre sul punto di spezzarsi o di soli-
dificarsi. Si destò all’improvviso, come se l’avesse punto qualcosa.
«Sono stato a dormire da Maurizio qualche giorno fa e mi ha
raccontato della guerra in Bosnia e della tua città».
Io annuii, sfuggendo con gli occhi, piantai lo sguardo da qual-
che parte per terra davanti a me, lo feci con la violenza con la qua-
le si piantano i chiodi, nella speranza che restino lì. Percepii che an-
che Ismail era tornato a guardare davanti a sé. D’improvviso la sce-
na mi fece scoppiare in una risata, lui mi osservava incredulo. Con
ogni probabilità si domandava che diavolo ci fosse di così diver-
tente nella sua frase o magari semplicemente inorridiva davanti
alla mia reazione irrispettosa.
«Scusa» dissi ricomponendomi.
«Maurizio l’aveva detto che i bosniaci sono persone molto
scherzose» rispose con calma, ma sul viso l’espressione era anco-
ra stupita.
«In realtà mi faceva ridere la scena, non il fatto della guerra.
Non mi aspettavo nominassi Srebrenica, mi hai colto di sorpresa,
mi sono spaventata e in automatico ho cercato di evitare la con-
versazione. Allora mi sono immaginata di guardarci da fuori: un’ex
profuga e un richiedente asilo scioccati in un parco».
«Chiedo scusa».
A lui la mia scena immaginata non provocava risate.
«No, no, dura solo un attimo, è una sorta di automatismo. Ora
va già bene, possiamo parlarne».
«Non pensavo di spaventarti, pensavo che fosse una cosa
lontana».
«Sì, da un lato è lontana e dall’altro no. Un improvviso cenno
è in grado di mettermi subito in uno stato di terrore. Mi si irrigi-
discono i muscoli delle braccia e delle gambe. Dura poco, matant’è».
«Pensi che sarà sempre così?».
«Sì, è il meglio che sono riuscita a ottenere».
«Ah» sospirò sconsolato.
«Speravi ti dicessi che passa?».
Lui scrollò le spalle, quasi imbarazzato della domanda e ag-
giunse: «È triste».
«No, non direi triste, è tanto altro. Sì, magari pure triste, ma
non solo».
Ismail annuì come a dire che era d’accordo, poi chiese: «Non
ti piace parlarne?».
«Vediamo, fammi pensare...».
Si poteva dire che in assoluto no, non mi piaceva parlarne,
però c’era stato un tempo, un momento lungo un anno o due,
preceduto da anni di silenzio, in cui più che piacermi ne avevo avu-
to bisogno. Poi dipendeva anche con chi ne parlavo e in quali cir-
costanze: non mi piaceva essere un testimone del genocidio e mi

faceva imbestialire essere relegata in maniera perenne a un vissu-
to di tanti anni prima, un vissuto che mi aveva segnata ma che,
non avendomi uccisa, aveva lasciato lo spazio affinché ci fossero al-
tri, nuovi vissuti. Per difendermi mandavo a memoria un monito
dello scrittore Danilo Kiš: «Non è possibile, giovanotto mio, e que-
sto ricordatelo per sempre, non è possibile recitare la parte della
vittima per tutta la vita senza diventarlo alla fine davvero».
«Ecco, nelle nostre indicazioni del bravo immigrato, questa
del lasciarsi ridurre a una prevedibile macchietta del disagio sa-
rebbe una lezione importante» dissi.
«Sai che l’altro giorno stavo aspettando Maurizio sotto casa sua,
ero appoggiato al muro del suo palazzo, guardavo il cellulare,
quando una signora si avvicina a me, viene proprio vicino, con la
sua faccia vuole entrare nella mia, scuote la testa e poi dice: “Io
un euro te lo do pure, però ragazzi siete tanto giovani e forti, tro-
vatevi un lavoro!”. E mi voleva dare un euro a tutti i costi e io a
spiegarle che sto aspettando un amico, non sto elemosinando e
lei ci ha messo un bel po’ a capirlo, non voleva rassegnarsi».
«L’hai destabilizzata... quando mai si è visto un nero aspettare
un amico?!».
«Ti dico una cosa un po’ brutta».
«Dimmi...».
«Odio questa cosa che noi immigrati abbiamo sempre biso-
gno di aiuto e non possiamo mai rispondere male, dobbiamo sem-
pre fingere di essere buoni, bravi e sorridere e dire grazie fratello,
grazie sorella. Mi sembra che questa cosa ci fa diventare stupidi.
Quando vedo i miei compagni fare così, mi sembrano scemi, per
forza poi gli italiani ci guardano e credono che gli africani non han-
no pensieri profondi o intelligenti... Oppure a un certo punto
impazziamo e allora non facciamo che urlare contro tutti...».
Stava iniziando a piovere, nel giro di pochi minuti le sporadi-
che gocce di pioggia si trasformarono in un acquazzone violento
e noi ci precipitammo a cercare una tettoia, trovammo l’androne
di un palazzo, ci infilammo e restammo a guardare la furia del
vento.
«Ho visto dei video sulla tua città. Sono sparite molte perso-
ne, i video fanno paura, non ho potuto dormire. Non sapevo che

era stato così, non sapevo niente. Hanno ritrovato i corpi?» sparò
tutto d’un fiato, come per liberarsi delle frasi al più presto.
«Ogni anno il giorno dell’anniversario c’è la sepoltura dei cor-
pi che trovano durante l’anno» dissi con la voce neutrale di un
cronista di Rai Storia.
«Dev’essere molto brutto».
«Non credo sai, credo sia peggio non farlo, non seppellirli».
Ismail mi guardava fisso, il suo sguardo non traballava, non mi
girava intorno, era fermo e diretto.
«Nella tua famiglia è morto qualcuno?» finalmente prese in ma-
no il coraggio.
«Sì» risposi e mi concentrai a strappare un filo che penzolava
dalla mia maglietta, cercando di guadagnare tempo. Per qualche
secondo sentii il nervoso correre sotto la pelle, la stessa irritazione
che mi stuzzicava quando ricevevo le e-mail in cui mi si invitava a
raccontare l’indicibile a una giornata di riflessioni sulle atrocità del
secolo passato.
Osservai Ismail e mi fu chiaro che non era questo il suo inten-
to. Teneva le mani in tasca e si era leggermente ingobbito come se
aspettasse un pugno allo stomaco. I suoi occhi erano grandi e ton-
di, quella rotondità sembrava rispecchiare e restituire la desola-
zione e la bellezza di mondi che non conoscevo e che intravedevo
affacciarsi dal bordo dei suoi occhi.
«Mio padre e mio zio».
Un corvo nero si alzò in volo da terra e andò ad appoggiarsi su
un secchio dell’immondizia. Il respiro si fermò in gola e tornò in-
dietro come quando si scende da una discesa a tutta velocità, ma
quando riprese a girare nel mio corpo portò con sé un’onda di
commozione.
«E li avete seppelliti?».
Nella memoria un cielo bianco e lattiginoso si stendeva poco so-
pra il Memoriale, una lapide bianca in mezzo a migliaia di altre;
l’ultima volta mio fratello mi aveva raccontato che le lapidi mu-
sulmane vengono lasciate sprofondare nella terra per sparire com-
pletamente col tempo e non lasciar traccia di quello che è stato.
Quella di mio zio, avevamo notato, si era già immersa di diversi
centimetri.

«Mio zio sì. Per questo so che è meglio farlo».
Ismail aspettava qualcosa, mentre io mi domandavo se avrei
potuto reggere fino a quando la pioggia fosse cessata, quindi cer-
cai di rovistare nella mente alla ricerca di una qualche tematica sul-
l’immigrazione, una qualsiasi cosa che ci allontanasse da dove era-
vamo arrivati. Mi guardava come forse aveva guardato lo scimpanzé
in Mali. Fece un passo nella mia direzione, con un gesto timido del
braccio mi diede una pacca sulla spalla, tanto bastò per farmi roto-
lare giù dal precipizio della mia fragilità e scoppiare a piangere.
Una coppia con un passeggino e dentro una bambina, tutti e tre
fradici, aveva preso la rincorsa dall’altra parte della strada per fion-
darsi verso l’androne dove stavamo, ma nel vedere un uomo e una
donna in piedi, braccia a penzoloni giù per i fianchi, la donna in
lacrime e l’uomo nero, non seppero che pesci pigliare. Andarsene
come dei codardi? Chiedere “tutto bene?” alla donna. Passare
per razzisti o per indifferenti? O niente di tutto questo, semplice-
mente ripararsi dalla pioggia. Ci salutammo con cenni di testa e
sorrisi forzati.
«Scusa» disse Ismail.
«Non fa niente, qualcuno doveva pur piangere in questa sto-
ria, altrimenti che storia di immigrati è?».
«E per di più è la bianca, non il nero. Questo non va bene»
sorrise con una morbidezza che teneva sempre a freno. L’intensità
della pioggia stava diminuendo, tra i vapori dell’umidità compari-
vano flebili raggi di sole, in controluce le gocce di pioggia sembra-
vano dei fitti fiocchi di neve. Di nuovo la commozione mi gonfiò
il petto e mi vennero in mente i fenicotteri: la prima volta che li
avevo visti volare nel cielo di Cagliari erano una ventina, si erano le-
vati in volo dalla salina e i loro corpi rosa si erano stagliati nella lu-
ce del tramonto. Procedevano a un ritmo lento e man mano la lo-
ro formazione cambiava, era una sorta di coreografia naturale tra i
palazzi colorati della città. A osservarli fermi nello stagno, pareva-
no, poggiati su una zampa sola, troppo grandi e inadatti al volo.
Con mio padre guardavamo i documentari sui fenicotteri che, per
i nostri climi e latitudini, ci apparivano come animali fantasmago-
rici, e fare un viaggio per accertarne l’esistenza era stato uno dei
progetti più grandiosi della mia infanzia.

Quel giorno a Cagliari, l’incontro con questi uccelli formida-
bili mi aveva fatto pensare a mio padre e alla sua sparizione in ma-
niera diversa, come a un evento nostro, intimo, estrapolato dalla
sociogeopolitica. Lui non aveva fatto in tempo a vedere i fenicot-
teri nei trentaquattro anni della sua vita e questa brevità del tem-
po, quest’atto mancato, l’innaturalezza dell’essere una figlia più
vecchia del padre, la definitività con la quale tutte le sue esperien-
ze si erano arrestate, mentre le mie andavano avanti, l’impossibilità
di stabilire un dove e un quando di quella morte aveva fatto sì che
lui non fosse mai diventato passato. Era presente come una sotti-
le mancanza tenuta viva da un dialogo immaginario, e questo ren-
deva la sua morte un fatto nostro personale, una domanda ancora
aperta che richiedeva salti acrobatici e contorsioni emotive, spie-
gazioni animate e serrate, e tuttavia mi sfuggiva e si snodava in
decine di venature della mia vita, impossibile da ridurre a una sto-
ria, poiché faceva parte di un’infinità di storie.